recensione di Manuela Basso
(ovvero dell’arte di incontrarsi)
“Mi vuoi incontrare?”
Si apre così il libro di Hanne Ørstavik – il primo nella traduzione italiana di questa affermata scrittrice norvegese.
Così, ma senza punto di domanda.
Incontrami.
Un invito, una proposta, il biglietto d’ingresso per il tendone di un luna parc in un quartiere di periferia. Un mondo sconosciuto, un viaggio. Il viaggio di Ruth, narratrice e protagonista, dai fiordi norvegesi a una piazza assolata nel sud della Francia. Per incontrare chi? Un uomo. Una donna. Un amore. Se stessa. Il desiderio dentro di sé, l’incontro più difficile.
“Sono scesa in uno spazio dentro di me che era sott’acqua e allo stesso tempo dentro una montagna, c’erano cavità, canali, grandi sale, come in una cantina profonda sotto terra, o una grotta… Sono in un posto che non conosco, penso.”
Chi sono io? Dove sono io? E tu, dove sei tu?
“Dov’è l’uomo verso cui ho camminato e camminato nell’ultimo anno, dov’è? Riuscirò mai a incontrarlo? Starà mai lì dove posso attraversare la sala e andargli incontro, davanti, incontrare i suoi occhi, apertamente?”
Attraverso l’arte, la costruzione di un’opera d’arte, Ruth si lascia abitare dalle visioni e dai ricordi che la legano a Johannes, l’uomo verso il quale ha camminato e cammina percorrendo, stanza dopo stanza, il museo della sua memoria e dei suoi fantasmi, in un viaggio che non può essere solo partenza ma che inizia proprio quando ci si rende conto di non sapere dove ci porterà e ci si lascia trasportare, allora, dalle correnti dei venti e dalle maree.
Di dolore si tratta, in fondo, sempre di dolore. Che transita, si sposta, dall’intestino alle mani, dalla testa al cuore. Attraverso gli occhi, anche se chiusi o lontani.
Di non incontri si tratta. Traiettorie in cui non ci siamo incontrati, spazi vissuti nell’assenza, linee che si sono soltanto sfiorate.
A Bordeaux c’è una grande piazza aperta, dove Ruth non incontra l’uomo che aspetta. Incontra Abel, si lascia sfiorare dai passanti, attraversare dalle direttrici del tempo, guidare dai desideri.
“E lo so, che è l’unica possibilità, l’altro come un altro, che è un presupposto, per un incontro. Che siamo due, non uno. Che siamo separati. Lo so. Ma quella parte in me che è sola non lo sa. Non può saperlo. Brancola, vede. Le immagini, come premonizioni, possibilità, proposte, spazi”.
Nelle scarpe rosse di Abel, nelle sue sculture, nei passi di Lily, nella chitarra di Ralf, nella sabbia fine che lascia ombre leggere, Ruth ritrova tracce del suo passato, del suo presente, del suo futuro.
Bisogna essere saldi dentro di sé, bisogna essersi trovati per donarsi, conoscersi per aprirsi all’incontro.
L’amore ci rende vulnerabili.
“Penso che sia un canale nella vita, questo, una fenditura verso qualcosa, inaspettato, imprevisto, qualcosa su cui non posso dire niente fino a dopo, dopo esserci stata, esserci passata attraverso, averlo vissuto”.
Da qualche parte nei sogni che facciamo al mattino, appena prima di svegliarci, nel girovagare inquieto dei pensieri in fila al semaforo, abbiamo tutti una grande piazza aperta: nella scrittura immaginifica ed evocativa della Ørstavik ci è dato vederla.
Ci sono alberi lungo tre lati, in doppia fila, come un viale. Il quarto lato dà sul fiume. Nel mezzo non c’è nulla, solo ghiaietto. Un ghiaietto fine come sabbia. Eppure è quello spazio, quel nulla, che ci attrae, che ci cattura.
L’apertura del possibile.
“Lo spazio è così forte. Come se volesse qualcosa da me. Me lo sono tenuto dentro a lungo, ho pensato, ascoltato tutte le possibilità che racchiude. L’unica cosa che vedo, ancora e ancora, è molto semplice, quasi niente. Vedo una persona, in mezzo alla stanza. È una donna, e un uomo le va incontro. Li vedo da una grande distanza. L’uomo va incontro alla donna, lentamente. La donna resta immobile. È in piedi in mezzo alla stanza, ferma, prima che arrivi l’uomo, prima che lui cominci a camminare. Poi lui la raggiunge. Si guardano. Si guardano negli occhi.”
È allora che lo spazio si riempie di senso. Che la bellezza diventa esperienza. Che l’incontro avviene.
“E prima mi sentivo imprigionata, perché anche se avevo paura che gli altri potessero scomparire, non riuscivo a tenerli vicini. Ma ora tutto sta cambiando. La piazza aperta dove sono dondola, oscilla da un lato all’altro, si crepa, vedo che la piazza aperta è un posto nel mio corpo”.
Un posto in me.
Hanne Ørstavik è nata a Tana, nel nord della Norvegia, nel 1969. Nel 1994, con il romanzo di esordio Hakk, ha dato inizio alla sua carriera di scrittrice e intellettuale, tra le più interessanti nel panorama attuale norvegese ed europeo. Ha pubblicato tredici romanzi fino ad ora, ha vinto numerosi premi letterari tra cui il Premio Dobloug assegnatole nel 2002. Det finnes en stor åpen plass i Bordeaux è la sua prima opera tradotta in italiano.